Il Progetto Esodo nasce dall’incontro delle volontà delle Caritas Diocesane Veronese, Bellunese e Vicentina, della Fondazione Cariverona, del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto, di promuovere e sostenere percorsi strutturati ed organici di inclusione socio-lavorativa a favore di persone detenute, ex-detenute o in esecuzione penale esterna.
A Verona il progetto è iniziato nel 2011, come servizio di Caritas rivolto a carcerati ancora in misura detentiva oppure ad ex carcerati. Tutte persone che fanno esplicita richiesta all’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Verona) di poter essere inserite all’interno del progetto.
Ecco le parole degli operatori del Samaritano che seguono il Progetto Esodo. “Esodo non è solo Accoglienza, ma è soprattutto reinserimento sociale. Dal 2011 ad oggi sono passate dal Samaritano circa 120 persone, con una vasta gamma di nazionalità e di reati commessi. Il Samaritano conta 12 posti letti dedicati al progetto”.
Di cosa parlate con questi ragazzi?
“Le tematiche sono comuni tra gli ospiti: la vita, il proprio io, le relazioni. E poi c’è il delicato tema della libertà. La libertà è difficile da accettare, fa paura. Anche perché poi ci sono due tipi di libertà: dal carcere al Samaritano e a seguire dal Samaritano al mondo esterno. È necessario non dare per scontata la libertà: magari per noi operatori e per la maggior parte delle persone è una cosa normale essere liberi. Ma per i ragazzi che passano da Esodo, la visione della vita, il futuro, la pianificazione, il camminare senza nessuno che ti indica dove andare non è scontato, anzi crea sconforto, vertigini, paura”.
Com’è il vivere nel quotidiano con questi ragazzi?
“Vivere con persone che hanno avuto problemi con la giustizia ci fa vivere meglio! Ci fanno scoprire di essere incredibilmente vicini alle storie di altri”.
E con loro cosa fate?
“Fare? Nulla. Semplicemente stiamo! Li ascoltiamo, camminiamo insieme, stiamo al loro fianco”.
La difficoltà maggiore?
“Per noi operatori la tenuta psicologica è molto importante. Perché incontriamo ogni giorno persone in grande difficoltà e alle volte anche con problemi psicologici, dovuti a gravissimi reati alle spalle. La difficoltà più grande per noi è sicuramente quella di riuscire a vedere la PERSONA e non il reato che può aver commesso. Al Samaritano, come nella vita, la persona è sempre al centro di tutto: non conta se è un senza tetto, un ex assassino, uno straniero. Non guardiamo mai la storia, il vissuto, gli errori del passato, ma nei nostri occhi c’è una persona che ha richiesto aiuto e ha bisogno di aiuto”.
E nel quotidiano, quali sono le piccole difficoltà che incontrate?
“Probabilmente far entrare i ragazzi con la testa nel progetto non è facilissimo. Noi cerchiamo di insegnare loro anche uno stile di servizio, di sporcarsi le mani, di darsi da fare anche per persone che non conoscono. E per persone che non sono abituate, perché hanno sempre avuto tutto e subito, non è semplice. Spesso abbiamo di fronte ragazzi che prima del carcere avevano tutto quello che volevano e magari lo ottenevano anche con la forza. Al Samaritano cerchiamo di insegnare loro anche questo stile di servizio che non è proprio scontato”.
Chiudiamo con la parola che più vi accompagna nel vostro lavoro. Qual è secondo voi?
“Tempo. Serve tempo per questi ragazzi. È necessario dare del tempo per capire cosa può succedere il futuro, cosa vuole ciascuno di loro. Ogni persona ha un suo percorso, un accompagnamento diverso, un tempo necessario anche per guardare al futuro. Serve tempo per revisionare il proprio reato, per metabolizzarlo. Serve tempo per ricostruirsi nella libertà. E poi regalare tempo a queste persone è fondamentale: stare con loro, ascoltarli, esserci”.